Non solo le stampanti 3d non cancelleranno la figura dell’artigiano, ma renderanno le sue competenze e il suo approccio alla produzione sempre più centrali
No, la stampante 3D non ucciderà gli artigiani. Per spiegarlo in breve, basta prendere a prestito le parole di Marcello Pirovano, designer e titolare di Tecnificio, spazio milanese dedicato proprio all’incontro tra progettisti e nuovi artigiani: “Sarebbe come dire che il frullatore ha ucciso la casalinga”. D’altra parte, non è nemmeno vero che nel giro di qualche mese e ci stamperemo qualsiasi cosa in casa, dai mobili al dessert. E questo ce lo spiega l’altra metà di Tecnificio, nonché dottoranda del Politecnico di Milano, Patrizia Bolzan: “Guardiamo i numeri: i dati dicono che costo medio delle stampanti 3D, tra il 2012 e il 2014, non solo non è sceso, ma è addirittura salito di 200 euro. Questo perché la tendenza è verso l’investimento professionale. Quindi si cercano prestazioni più alte e un maggiore comfort di utilizzo”.
Eppure noi esseri umani siamo così: di fronte a ogni nuova tecnologia oscilliamo tra l’adesione fanatica e il luddismo preventivo. Non fa eccezione la stampa 3D, tra tutti i protagonisti della rivoluzione digitale in atto quello meno compreso e digerito dall’opinione pubblica, proprio perché meno “plug and play” di un telefonino o di un servizio di e-commerce. Per accorgersene, basta leggere i commenti nel blog di Beppe Grillo (sempre un buon termometro della pancia del paese) sotto al post pubblicato pochi giorni fa in cui il comico mostra una stampante alimentare esposta al Ces 2015, spiegando che così “con il cioccolato e un po’ di zucchero te ne stai in casa e ti massacri di dolci!”. Affermazione discutibile, ma che ha generato esattamente questa spaccatura tra gli entusiasti del “nel futuro tutto sarà possibile” e gli apocalittici del “così si cancella il comparto artigiano”.
Per una fortunata coincidenza, negli stessi giorni a Milano è andata in scena, con tanto di workshop correlati, la mostra di Danneggiato, Incompleto, Incompiuto. Un progetto della Facoltà di Design e Arti e della Facoltà di Scienze e Tecnologie Informatiche della Libera Università di Bolzano che vede gli studenti lavorare all’incrocio dei diversi ambiti con pratiche che potremmo definire digital-artigianali. Il concetto di fondo lo riassume Simone Simonelli, il docente che ha curato l’iniziativa: “Abbiamo preso degli oggetti di scarto e abbiamo chiesto ai ragazzi di ragionare sul loro recupero utilizzando anche la stampa 3d, per costruire pezzi aggiuntivi che servissero a ripararli, che ne sostituissero le parti mancanti o che li trasformassero in qualcosa di nuovo”. Insomma, l’occasione perfetta per provare a fare un po’ d’ordine nel discorso e a cancellare qualche luogo comune.
A partire da quello per cui con questa tecnologia porti solo a produrre più oggetti, sempre nuovi. “In realtà - argomenta Simonelli - una delle sue funzioni può essere proprio quella di combattere l’obsolescenza programmata, allungando la vita di quello che già c’è”. All’atto pratico: se con la stampante realizzi un pezzo di ricambio uscito di produzione, hai la possibilità di riparare quello che altrimenti butteresti via dopo un certo lasso di tempo. Una bella rivincita dell’artigiano sulle dinamiche industriali, se vogliamo vederla così. Anche in questo caso non bisogna semplificare troppo, però: “Fare una cosa in stampa 3D non è per forza il modo migliore di farla. Bisogna valutare volume, peso e costo, oltre alla complessità della modellazione e del processo di trasferimento dati”, prosegue Simonelli, mettendo qualche paletto del quale è importante tenere conto, quando ci si immagina in cameretta intenti a sfornare di tutto.
L’uso di termini come modellazione e trasferimento dati ci porta verso il secondo luogo comune da sfatare: quello per cui la sfera tecnologica sia distante e incompatibile dalla pratica artigianale. Basta mettere piede in un mobilificio per capire quanto questa idea sia anacronistica. “L’immagine dell’artigiano come di un Geppetto che lavora a mano nella sua bottega non è realistica”, conferma Patrizia Bolzan, che nel 2012 con Tecnificio ha svolto il ruolo di mediatrice tra artigiani e designer per il progetto Analogico/digitale, un esperimento di incontro tra i due mondi nel segno della stampa 3d dal quale è nata a sua volta una mostra. “Le difficoltà maggiori le hanno avute i designer, che tendevano a volere troppo dalle stampanti. Gli artigiani avevano una comprensione migliore della tecnologia e dei suoi limiti. Quelli che lavoravano il legno, ad esempio, erano già abituati a progettare in CAD e a utilizzare macchine a controllo numerico”, che non sono meno complicate di quelle usate per stampare in 3D.
Si viene così a delineare uno scenario forse controintuitivo, ma elettrizzante. Quello in cui la stampa 3D non costringe gli artigiani a diventare progettisti digitali, quanto i designer a recuperare le basi della pratica artigiana. All’Università di Bolzano, il cui modello didattico si ispira direttamente al Bauhaus e dove i designer lavorano nelle officine, già funziona così: “Gli studenti sono sempre spinti a realizzare modelli in scala 1:1 di tutto quello che fanno. La strategia è cercare il modo più rapido di fallire se si è fatta una scelta sbagliata, in modo da poter trovare più in fretta la strada giusta. In questo senso, non c’è niente di più rapido di fare un modello a mano, in carta, plastilina o polistirolo”, conferma Simonelli. Il fatto che un aspirante designer passi non solo parecchio tempo a contatto con software di progettazione tipo SolidWorks, ma anche in luoghi come il Laboratorio Legno o il Laboratorio Plastica, dovrebbe far riflettere.
Il nodo centrale, allora, è quello della didattica. Che Patrizia Bolzan mette in prospettiva: “La Scuola di Weimar, quella del Bauhaus, prevedeva che il progettista sapesse realizzare quello che ideava. L’evoluzione successiva è stata quella della Scuola di Ulm, la cui impostazione negli anni ha fatto sì che si andasse sempre di più verso la metodologia pura. Ora la stampa 3D ci rimette di fronte al fatto che ci vogliono tempo e competenza per andare dall’idea all’oggetto. Un discorso opposto rispetto a quello al quale ci ha abituato il modello turbocapitalista, con la Cina che produce quantità enormi di prodotti a bassissimo costo e a getto continuo”. Il modello cinese i suoi limiti già li sta mostrando, in termini di sostenibilità e costi sociali. Per elaborarne uno nuovo, l’apporto di scuole e univesità sarà fondamentale.
Proprio come gli studenti di Simonelli quando un modellino non funziona, anche i docenti ora potrebbero essere arrivati al punto in cui si torna indietro di un passo per provare a imboccare una strada nuova. Un passaggio che, a cascata, finirà inevitabilmente (vedremo poi con che tempistiche) per modificare profondamente il sistema produttivo, e con esso tanti aspetti della nostra vita quotidiana. Come spesso accade per l’innovazione, non servirà essere addetti ai lavori per godersi lo spettacolo. Per il momento, basta cominciare a fare piazza pulita di qualche pregiudizio.
fonte: wired.it