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La grande retromarcia: musica gratis addio su Internet?

Major e artisti sembrano d'accordo: il modello "freemium" dello streaming va cambiato, limitando le offerte di musica gratis e favorendo gli abbonamenti premium. Il nuovo servizio di Apple sarà solo a pagamento, mentre Spotify – chiamata direttamente in causa – risponde: così si rischia il ritorno alla pirateria.

spotify logoIl 2015 potrebbe essere l'ultimo anno in cui la musica in streaming verrà offerta gratis su Internet. Quantomeno quella disponibile legalmente, in quantità illimitata e finanziata dalla pubblicità su servizi come Spotify e YouTube. Diversi segnali, tutti lanciati nelle scorse settimane, sembrano andare in questa direzione: dai commenti rilasciati dai dirigenti delle tre major (Universal, Sony, Warner) alle manovre in corso attorno alle nuove piattaforme di Apple e YouTube, alle rimostranze pubbliche di artisti di prima fila nel panorama internazionale (dopo Taylor Swift, la crociata anti-Spotify è stata rilanciata da Bjork). 

I colpi più rumorosi arrivano dai piani alti dell'industria. A pochi giorni di distanza l'uno dall'altro, quasi come in una strategia coordinata, i capi di tutte le major hanno espresso le loro perplessità sul modello freemium (quello che permette al pubblico di scegliere tra un'offerta gratuita e un abbonamento a pagamento e di cui Spotify è l'incarnazione più popolare). In un intervento alla conferenza Code/Media 2015, a febbraio, l'amministratore delegato di Universal Music Lucian Grainge (nella foto, fonte: Re/Code) ha detto che gli abbonamenti gratuiti con annunci pubblicitari “non sono sostenibili sul lungo termine” ; più pesante è stato l'affondo di Doug Morris, CEO di Sony Music, che ha dichiarato a Hits Daily Double che dal suo punto di vista “il gratis coincide con il declino dell'industria musicale” ; il ruolo del poliziotto buono è stato invece interpretato dal CEO di Warner Music Steve Cooper, che a dicembre ha confermato di amare lo streaming, chiedendo però ai gestori dei servizi di differenziare maggiormente l'offerta gratuita da quella a pagamento .  

Per una battuta che si fa in pubblico, molto di più avviene dietro le quinte. Secondo il Financial Times , Universal Music starebbe concretamente facendo leva sul rinnovo delle licenze relative al suo catalogo per spingere Spotify ad accelerare le pratiche di depotenziamento del modello freemium, penalizzando gli utenti free del suo servizio. In particolare, le pressioni riguarderebbero il ripristino di limitazioni che permettono un ascolto gratuito di musica solo per alcune ore al mese (come accadeva in precedenti versioni dell'applicazione: oggi gli utenti free non hanno più limitazioni su computer, mentre devono rinunciare all'ascolto on demand su smartphone e tablet). Come hanno sottolineato diversi addetti ai lavori, forse non è un caso che il radicale cambio di direzione di Universal sia avvenuto in contemporanea con l'addio di Rob Wells, ex-responsabile del global digital business della major e sostenitore del modello freemium

Un altro fronte caldo è quello degli artisti. Non esiste ancora una vera alleanza contro lo streaming gratuito e la maggior parte dei nuovi album vengono tuttora distribuiti sia sui servizi in abbonamento che su quelli pagati dalla pubblicità, ma le voci individuali contrarie al freemium si fanno sempre più numerose e rilevanti. Sono cambiati anche l'approccio e la filosofia della protesta: se un paio d'anni fa Thom Yorke dei Radiohead si scagliava contro il controllo sulla musica dell'alleanza Spotify/major in una battaglia dal sapore politico, oggi le lamentele degli artisti hanno un carattere più squisitamente economico e si allineano alle perplessità dei big della discografia. L'esempio che negli ultimi mesi ha sollevato il maggior clamore è stato quello di Taylor Swift, che ha rimosso il suo intero catalogo da Spotify (compreso il recente bestseller 1989) lamentando il fatto di non poter decidere personalmente a chi fare ascoltare il suo album: se solo agli abbonati a pagamento o anche a quelli free. Tra i nuovi dischi del 2015, sono ancora assenti da Spotify pezzi grossi come Shadows in the Night di Bob Dylan e Vulnicura di Björk (in un'intervista a Fast Company l'artista islandese ha espresso la sua insofferenza verso l'intera “streaming thing”, definendola “insana”).  

C'è poi un terzo settore che, a osservarlo bene, lascia immaginare un futuro in allontanamento dal freemium: ed è proprio quello della tecnologia. In questi giorni si sta parlando molto del nuovo servizio in streaming di Apple, che nascerà in estate dalle ceneri di Beats Music (la piattaforma rilevata da Cupertino lo scorso anno). Nel suo DNA c'è un legame stretto con gli artisti: da Dr. Dre, il produttore-rapper che lo ha fondato e che oggi si gode i soldi della maxi-vendita ad Apple, a Trent Reznor, il frontman dei Nine Inch Nails, ex-ribelle antimajor e oggi perfettamente inserito nei meccanismi corporate della Silicon Valley, al punto da coordinare i lavori sul lancio della piattaforma. Pur sfidando Spotify sul terreno dello streaming, si sa già che il servizio non ne ricalcherà la strategia freemium: niente opzione gratuita e nemmeno l'annunciato abbonamento low cost a 7,99 dollari al mese (l'industria discografica avrebbe bocciato l'idea, scrive il New York Times, costringendo Apple a rispettare lo standard dei 9,99 dollari al mese). La linea dura mantenuta dalle major nei confronti di Cupertino lascia pensare che anche per Spotify si apra una fase piuttosto complicata sul terreno delle trattative per il rinnovo delle licenze.  

C'è poi da vedere cosa succederà in casa YouTube. Sebbene la moda attuale prescriva di puntare i propri cannoni contro Spotify, non pochi addetti ai lavori sottolineano come il vero simbolo della musica gratis su Internet sia la piattaforma di video controllata da Google. Con il suo miliardo di utenti mensili, in molti paesi - Italia compresa - YouTube è oggi il maggior fornitore di musica online. E nel suo caso non si può nemmeno parlare di freemium: le canzoni sono praticamente tutte gratis. Secondo Doug Morris di Sony, YouTube è il “biggest culprit” (il responsabile principale) della diffusione del free legale e da alcuni mesi il sito sta sperimentando una nuova piattaforma di streaming musicale, a pagamento, che dovrebbe inserirsi sui binari di Spotify, Deezer, Rdio e del frutto dell'operazione Apple/Beats. Scendendo a piani più bassi ma in grande fermento, non si vede traccia di freemium nemmeno negli orizzonti di Tidal, il servizio di streaming ad alta qualità audio appena acquistato in Europa dal rapper americano Jay-Z. Anzi, l'abbonamento mensile viene proposto a un prezzo addirittura doppio rispetto alla media: 19,99 euro al mese (ed è arrivato subito l'endorsement di Taylor Swift che ha concesso tutti i suoi album tranne 1989).  

Insomma, sono numerosi gli indizi che portano a un progressivo abbandono del freemium, anche se non tutte le opinioni sono favorevoli. Tra le reazioni più critiche, come è naturale, c'è quella di Spotify. I dirigenti della società svedese ripetono che dal loro punto di vista il modello ha funzionato alla perfezione per recuperare utenti dall'oceano della pirateria e riportarli gradualmente verso gli abbonamenti a pagamento. Nel valzer dei numeri che danzano attorno all'industria musicale online, ce ne sono alcuni che sembrano dare ragione ai detrattori del freemium. Per esempio, quelli che provengono dal confronto tra la distribuzione degli utenti streaming e quella degli effettivi guadagni. Spotify dichiara circa 60 milioni di utenti, di cui 15 milioni a pagamento. La web radio Pandora, molto popolare negli USA, ha 80 milioni di utenti di cui solo 3,5 milioni a pagamento. Eppure negli USA nel 2014 il profitto maggiore è arrivato nettamente dallo streaming a pagamento: 799 milioni di dollari, contro i 294 milioni provenienti dallo streaming gratuito. L'utente che paga la musica, insomma, rende all'industria una quantità di soldi molto più alta rispetto a quello che la ascolta gratis con pubblicità. Ma i dati presentano anche altre chiavi di lettura: secondo Mark Mulligan, analista di MIDiA Research, Spotify è l'azienda che concretamente ha svolto il lavoro migliore nel “convertire” utenti gratuiti in abbonati a pagamento. E il passaggio attraverso l'offerta gratuita è stato quasi obbligatorio: l'80% dei suoi utenti paganti, dice Spotify, ha provato prima l'offerta free.  

A confondere e annebbiare il paesaggio nella sfera di cristallo ci si mettono anche gli scenari industriali e finanziari che potrebbero schiudersi nei prossimi mesi. Da anni ormai si ventila l'ipotesi di una quotazione in borsa di Spotify. Le major detengono una quota della società e potrebbero essere interessate a non penalizzare troppo la sua strategia di business, per non rischiare di perdere i ricchi guadagni che arriverebbero nel momento dell'ingresso al Nasdaq. Un'altra voce che circola periodicamente è quella di una super-acquisizione della stessa Spotify: all'inizio della settimana scorsa il sito Digital Music News ha gettato un nuovo sasso nello stagno, scrivendo che il Wall Street Journal avrebbe pronta la storia di un acquisto dell'azienda per il valore di 14 miliardi di dollari da parte di un compratore sconosciuto. La notizia non è confermata (e al momento la pagina non è più raggiungibile), ma è chiaro come una simile eventualità rimescolerebbe tutte le carte nel mazzo, soprattutto nel caso dell'intervento diretto di un'altra big della Silicon Valley (chi potrebbe permettersi un acquisto da 14 miliardi di dollari? Facebook? Google? Amazon? Microsoft?).  

Infine, sullo sfondo c'è un altro importante aspetto che rischia di essere sottovalutato: le abitudini del pubblico. Se si è arrivati a un modello freemium in cui una buona porzione di musica viene offerta gratis è perché l'industria musicale ha dovuto stravolgere il modus operandi del Novecento e riavvicinare quelle generazioni (vecchie e nuove) che nel decennio 1999-2009 hanno scaricato in massa MP3 dalle reti peer-to-peer, abituandosi a considerare la musica come un bene da consumare e condividere gratuitamente. Nel racconto dell'evoluzione della musica online, per un paio d'anni gli streaming di YouTube e (soprattutto) Spotify sono stati portati a esempio della possibile trasformazione del mercato “ufficiale”, conciliando le attese del pubblico, le ragioni economiche e lo stato della tecnologia. Avrebbe senso, in questo momento storico, una retromarcia improvvisa dell'industria? In caso di scomparsa del free streaming, gli utenti metterebbero davvero mano alla carta di credito o tornerebbero invece a rifornirsi nel serbatoio del file sharing? È vero che il contesto tecnologico è molto diverso rispetto a cinque anni fa e che il trionfo dei dispositivi mobili (smartphone, tablet) e dello stesso streaming ha restituito un po' di controllo ai produttori di contenuti. Ma è anche vero che il P2P non è mai scomparso del tutto e che le reti digitali hanno dimostrato una certa malleabilità di fronte alla fantasia creativa e alla capacità di adattamento di pirati e sviluppatori di software. Come dice Charles Caldas, amministratore delegato di Merlin (agenzia americana che gestisce le licenze di decine di migliaia di etichette indipendenti), il rischio è di riportare a galla un ricordo che a molti discografici di sicuro risveglia un forte mal di stomaco: “Trattare i consumatori come bambini e dir loro che i servizi streaming che si sono abituati a usare scompariranno perché non piacciono alle major vuol dire ripetere lo stesso errore degli anni di Napster”. 

 

fonte: lastampa.it

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